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dalla scienza
a cura della redazione di
NUTRA HORIZONS

La composizione del microbiota intestinale presente nel primo mese di vita di un bambino è un forte predittore dello sviluppo di sensibilizzazioni e allergie alimentari, in particolare all'uovo, fino a sette anni dopo. Queste le conclusioni di uno studio condotto dal...
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Allergie alimentari: cruciale il microbiota nel primo mese di vita
Lo studio pubblicato su Gut Microbes ha approfondito il ruolo del microbiota intestinale nella regolazione immunitaria, in particolare l'impatto dei metaboliti prodotti dal microbiota sullo sviluppo della dermatite atopica (DA). La comprensione dei processi di crosstalk tra l'intestino e la pelle rivela una serie di possibilità, soprattutto...
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Asse intestino pelle e dermatite atopica: dal microbioma intestinale nuove possibilità di strategie terapeutiche
La composizione del microbioma dipende dai livelli di assunzione e dalla varietà degli alimenti vegetali più che dal pattern dietetico vegano, vegetariano o onnivoro
Il recente studio pubblicato su Nature Microbiology ha analizzato la composizione del microbioma intestinale, la composizione della dieta e i livelli di alcuni marcatori di salute cardiometabolica in 21.561 persone appartenenti a cinque coorti provenienti da Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia. Dall’analisi emerge che gli onnivori...
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Tè e caffè alleati contro tumori di testa e collo
Il consumo di tè e caffè svolge un ruolo protettivo nello sviluppo dei tumori della testa e del collo. Ad evidenziarlo, è il recente studio pubblicato su Cancer. I tumori specificamente considerati includevano quelli della cavità orale (labbra, lingua, gengive...
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Succo di mirtillo rosso, compresse di mirtillo rosso o terapie liquide per le infezioni delle vie urinarie: una revisione sistematica e una meta-analisi
Con oltre il 50% delle donne che soffrono di almeno un episodio di infezione delle vie urinarie (UTI) ogni anno e una crescente prevalenza di resistenza antimicrobica, è necessario identificare chiaramente le evidenze a sostegno di potenziali interventi non farmacologici. Lo studio pubblicato su European Urology Focus...
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Omega-3 per la prevenzione secondaria delle lesioni della sostanza bianca e della rottura dell'integrità neuronale negli anziani
Uno studio clinico condotto presso la Oregon Health & Science University suggerisce che un sottogruppo di adulti anziani con una predisposizione genetica alla malattia di Alzheimer può trarre beneficio dagli integratori di olio di pesce.
Lo studio è stato recentemente pubblicato su JAMA Network Open.
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Impatto della composizione del microbioma intestinale sul processo decisionale sociale
Ci sono sempre più prove che dimostrano il ruolo del microbioma intestinale nella regolazione del comportamento socio-affettivo negli animali e nelle condizioni cliniche. Tuttavia, se e come la composizione del microbioma intestinale possa influenzare il processo decisionale sociale in condizioni di salute rimane tuttora sconosciuto...
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La combinazione del 7,8-diidrossiflavone con la vitamina B6 potrebbe aiutare a preservare la funzione cognitiva
La vitamina B6 è un nutriente importante per una funzione cerebrale ottimale, la sua carenza è collegata a una compromissione della memoria, dell'apprendimento e dell'umore in vari disturbi mentali. Nelle persone anziane, la carenza di vitamina B6 è anche associata al declino della memoria e alla demenza. Sebbene...
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Zschimmer & Schwarz annuncia la vendita di Bregaglio S.r.l. in Italia a 2M Holdings Group (2M)
La vendita avviene sulla base di una chiara strategia per il futuro del Gruppo Zschimmer & Schwarz. L’azienda, attiva a livello globale, fornitore di specialità chimiche e ausiliari, si sta concentrando sempre più nella divisione Personal Care. Martin Haberl, Direttore Generale di Zschimmer & Schwarz, sottolinea: “Siamo lieti di aver trovato una nuova e forte casa per Bregaglio con 2M. In Zschimmer & Schwarz ci stiamo concentrando completamente sulla nostra strategia e su ciò che ha contraddistinto la nostra azienda per oltre 125 anni: lo sviluppo di prodotti di alta qualità e tailor made". Bregaglio fa parte...
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La composizione del microbiota intestinale presente nel primo mese di vita di un bambino è un forte predittore dello sviluppo di sensibilizzazioni e allergie alimentari, in particolare all'uovo, fino a sette anni dopo. Queste le conclusioni di uno studio condotto dal Riken Center for Integrative Medical Sciences di Wako, in Giappone e pubblicato di recente sul Journal of allergy and clinical immunology.
I bambini di 1 mese presentavano tre enterotipi principali: dominante in Bacteroides, dominante in Klebsiella e dominante in Bifidobacterium. Lo studio ha misurato i livelli di IgE specifiche per latte, arachidi, albume d'uovo e grano nel sangue dei bambini nel corso di sette anni.
L'enterotipo dominante in Bifidobacterium, caratterizzato anche dalle più elevate concentrazioni fecali di propionato, era associato ai rischi più bassi di sviluppare sensibilizzazione e allergia all'albume d'uovo.
Due i principali fattori identificati in grado di influenzare la composizione del microbiota infantile nel primo mese di vita. Da un lato, il tipo di parto: i bambini nati con parto naturale avevano una maggiore probabilità di avere microbiota di tipo 3, soprattutto se allattati al seno per periodi relativamente brevi. Dall’altro, l’allattamento al seno: un minor ricorso, è stato collegato al tipo 3, l’allattamento per un tempo più lungo al tipo 1. Un microbiota di tipo 2 è risultato dominante in caso di taglio cesareo e allattamento al seno limitato.
Così gli Autori: “Abbiamo condotto questo studio nella speranza che una migliore comprensione del microbiota intestinale neonatale possa aiutare a generare strategie di prevenzione delle allergie. Abbiamo scoperto che tipologie diverse di popolazioni microbiche intestinali sono correlate ad altrettante diversità nei livelli sierici di IgE specifici per gli allergeni alimentari e che l'intervento con probiotici, in particolare Bifidobacterium, durante l'infanzia potrebbe aiutare a prevenire le successive allergie alimentari, soprattutto nei bambini più a rischio. Sono necessarie ulteriori ricerche per confermare questi risultati e sviluppare strategie di intervento mirate”.
Foto di PixelAnarchy da Pixabay


Lo studio pubblicato su Gut Microbes ha approfondito il ruolo del microbiota intestinale nella regolazione immunitaria, in particolare l'impatto dei metaboliti prodotti dal microbiota sullo sviluppo della dermatite atopica (DA). La comprensione dei processi di crosstalk tra l'intestino e la pelle rivela una serie di possibilità, soprattutto attraverso la manipolazione del microbioma intestinale, che possono rappresentare strategie terapeutiche in grado di contribuire ai trattamenti standard dei pazienti affetti da DA.
I risultati hanno rivelato che le femmine nate da madri che avevano assunto integratori di calcio durante la gestazione avevano una pressione sistolica inferiore di circa 2 mmHg da bambine e da adolescenti rispetto alle coetanee le cui madri avevano ricevuto il placebo. L’analisi dei parametri antropometrici raccolti nel corso dello studio ha mostrato una crescita più lenta ma più protratta nel tempo tra le bambine e ragazze nate da donne che erano state supplementate rispetto al gruppo di controllo. Tra i maschi invece non si è osservata nessuna associazione tra l’assunzione di calcio da parte delle madri durante la gravidanza e i diversi parametri misurati (pressione, parametri antropometrici, curve di crescita).
In generale, comunque, questo studio ha dimostrato, nella prole femminile, che l'integrazione di calcio in gravidanza può ridurre la pressione arteriosa sistolica e rallentare la crescita lineare nell'infanzia e nell'adolescenza, rafforzando l’ipotesi che interventi prenatali possano avere benefici duraturi, sebbene il meccanismo esatto non sia ancora stato chiarito e la definizione delle implicazioni a lungo termine richieda ulteriori ricerche, soprattutto per valutare gli effetti intergenerazionali e sullo sviluppo sia dell’apparato scheletrico e sia della pressione sanguigna.
Foto di Supliful - Supplements On Demand su Unsplash

Il recente studio pubblicato su Nature Microbiology ha analizzato la composizione del microbioma intestinale, la composizione della dieta e i livelli di alcuni marcatori di salute cardiometabolica in 21.561 persone appartenenti a cinque coorti provenienti da Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia. Dall’analisi emerge che gli onnivori (19.817) i vegetariani (1.088) e i vegani (656) si differenziano nettamente per composizione microbica e che la distinzione è particolarmente marcata tra onnivori e vegani. In particolare, negli onnivori il consumo di carne rossa è risultato associato alla presenza di batteri come Ruminococcus torques, Bilophila wadsworthia e Alistipes putredinis, che correla con esiti cardiometabolici meno favorevoli; le diete vegane sono associate alla presenza di batteri considerati invece benefici, come Lachnospiraceae e Butyricicoccus sp., produttori di acidi grassi a catena corta. Inoltre i ricercatori hanno individuato delle associazioni tra la composizione del microbioma intestinale e la presenza dei ceppi di microorganismi tipici dei diversi alimenti: per esempio, nelle persone che assumevano diete ricche di latte e derivati era più alta la presenza di Streptococcus thermophilus e altri batteri lattici (come Lactobacillus acidophilus, paracasei e lactis), mentre il microbioma dei vegani aveva la maggiore prevalenza di batteri presenti nella frutta e nella verdura (e nel suolo dei terreni destinati alla coltivazione), come Escherichia hormaechei e alcuni ceppi di Klebsiella.
Gli autori concludono che, in base a questi risultati, la presenza degli alimenti vegetali nella dieta e la loro varietà sono determinanti degli effetti positivi per la salute intestinale e cardiometabolica; è meno rilevante invece che il consumo di vegetali rientri in una dieta basata esclusivamente sui vegetali o onnivora, purché sia nutrizionalmente equilibrata. Le implicazioni di queste osservazioni sono di evidente carattere pratico: infatti, se confermate, potrebbero aiutare a sviluppare strategie nutrizionali personalizzate e interventi dietetici mirati. Resta tuttavia da chiarire il ruolo specifico di alcuni batteri nel mantenimento della salute umana e i potenziali effetti della trasmissione dei diversi ceppi dagli alimenti al tratto intestinale.
Foto di ENES KOÇ da Pixabay
Tra i 415.737 partecipanti privi di malattie cardiovascolari, sono stati identificati 18.367 pazienti con fibrillazione atriale incidente, 22.636 con eventi cardiovascolari avversi maggiori e 22.140 decessi durante il follow-up. Gli individui senza malattie cardiovascolari note che assumevano regolarmente integratori di olio di pesce avevano un rischio del 13% più elevato di sviluppare la fibrillazione atriale e del 5% più elevato di avere un ictus rispetto a coloro che avevano una buona salute cardiaca ma non usavano l'olio di pesce.
Tuttavia, i soggetti affetti da malattie cardiovascolari che utilizzavano gli integratori avevano un rischio inferiore del 15% di passare dalla fibrillazione atriale all'infarto e del 9% di passare dall'insufficienza cardiaca alla morte. Il rischio di passare da un buono stato di salute a un infarto, un ictus o un'insufficienza cardiaca era del 6% più alto tra le donne che assumevano omega 3 e del 6% più alto tra i non fumatori. L'effetto protettivo dell'olio di pesce sul passaggio dalla buona salute alla morte era maggiore negli uomini e nei partecipanti allo studio più anziani.
Nel complesso, i dati hanno dimostrato che l'uso regolare di integratori di olio di pesce potrebbe essere un fattore di rischio per la fibrillazione atriale e l'ictus nella popolazione generale, ma potrebbe essere vantaggioso per la progressione della malattia cardiovascolare dalla fibrillazione atriale agli eventi cardiovascolari avversi maggiori e dalla fibrillazione atriale alla morte. Sono necessari ulteriori studi per determinare i meccanismi precisi per lo sviluppo e la prognosi di episodi di malattia cardiovascolare con l'uso regolare di integratori di olio di pesce.

Il consumo di tè e caffè svolge un ruolo protettivo nello sviluppo dei tumori della testa e del collo. Ad evidenziarlo, è il recente studio pubblicato su Cancer.
I tumori specificamente considerati includevano quelli della cavità orale (labbra, lingua, gengive, pavimento della bocca e palato duro), dell'orofaringe (base della lingua, tonsilla linguale, palato molle, ugola, tonsilla e orofaringe), dell'ipofaringe (seno piriforme e ipofaringe) e della laringe. Sono stati esclusi i tumori delle ghiandole salivari, della cavità nasale/orecchio/seni paranasali e le sovrapposizioni tra diverse sedi della testa e del collo.
Lo studio ha utilizzato dati aggregati da 14 studi caso-controllo (9.548 casi e 15783 controlli) appartenenti all'International head and neck cancer epidemiology (Inhance) consortium.
Le informazioni includevano dati demografici, abitudini di vita (fumo, alcol, dieta) e dettagli sul consumo di caffè e tè. Sono stati condotti aggiustamenti statistici per età, sesso, etnia, livello di istruzione, indice di massa corporea, consumo di tabacco, consumo di alcol, consumo di frutta e verdura per controllare possibili fattori confondenti.
I risultati indicano che un consumo elevato di caffè (>4 tazze al giorno) è associato a un rischio inferiore di Hnc (OR: 0,83; 95% CI: 0,69 - 1,00), in particolare per i tumori della cavità orale (OR: 0,70; 95% CI: 0,55 - 0,89) e dell'orofaringe (OR: 0,78; 95% CI: 0,61–0,99). Un consumo di 3-4 tazze al giorno è stato associato a una riduzione del rischio di cancro dell'ipofaringe (OR: 0,59; 95% CI: 0,39–0,91). È stata osservata una relazione dose-risposta significativa.
Il consumo di caffè decaffeinato, dal canto suo, è stato associato a una riduzione del rischio di cancro della cavità orale (OR: 0,75; 95% CI: 0,64–0,87). In particolare, bere da >0 a <1 tazza di caffè decaffeinato al giorno è stato correlato a un rischio minore di sviluppare questo tipo di tumore. Non è stata trovata alcuna associazione con il rischio di tumori della laringe.
Il consumo di tè è risultato inversamente associato al cancro dell'ipofaringe (OR: 0,71; 95% CI: 0,59–0,87). Un consumo giornaliero di >0 a ≤1 tazza è inversamente associato al rischio complessivo di Hnc (OR: 0,91; 95% CI: 0,84–0,98) e al cancro dell'ipofaringe (OR: 0,73; 95% CI: 0,59–0,91). Tuttavia, il consumo di >1 tazza di tè risulta aumentare il rischio di cancro della laringe (OR: 1,38; 95% CI: 1,09–1,74).
“Sia il caffè che il tè contengono composti bioattivi con potenziali effetti antiossidanti, antitumorali e antinfiammatori”, commentano gli Autori. “Il caffè contiene caffeina, polifenoli, acidi clorogenici, cafestol e kahweol, mentre il tè contiene caffeina, polifenoli, catechine e flavanoli. Studi in vitro hanno mostrato che questi composti possono inibire la proliferazione cellulare, indurre l'apoptosi e modulare i percorsi biologici correlati al cancro, potenzialmente offrendo una protezione contro gli Hnc. I risultati dello studio, dunque, suggeriscono un potenziale ruolo protettivo del consumo di caffè e tè contro alcuni tipi di Hnc e sottolineano l'importanza della dieta nella prevenzione di tali tumori. Sono necessari ulteriori studi su popolazioni diverse come quelle di Africa, Asia e America Latina, su diversi tipi di caffè e tè e sull'effetto a lungo termine, al fine di migliorare la comprensione dei meccanismi alla base di queste associazioni e di definire meglio il ruolo di queste bevande nella prevenzione dei tumori di testa e collo”.
Foto di Henk van der Steege su Unsplash

La compromissione dell'autofagia, che comprende l'alterazione della mitofagia e della funzione lisosomiale, svolge un ruolo fondamentale nella malattia di Alzheimer (AD). L'urolitina A (UA), sostanza presente in natura nei melograni, è un metabolita microbico intestinale dell'acido ellagico che stimola la mitofagia. Gli effetti del trattamento a lungo termine dell'AD con UA e i meccanismi d'azione sono sconosciuti.
Un nuovo studio pubblicato su Alzheimer's & Dementiaha affrontato queste domande in tre modelli murini di AD con approcci comportamentali, elettrofisiologici, biochimici e bioinformatici.
I ricercatori avevano precedentemente rivelato che una molecola specifica, il nicotinamide riboside (integratore NAD), svolge un ruolo chiave nelle malattie neurodegenerative come l'Alzheimer e il Parkinson, in quanto aiuta attivamente a rimuovere dal cervello i mitocondri danneggiati.
I risultati del nuovo studio dimostrano che l'UA rimuove i mitocondri deboli dal cervello con la stessa efficacia dell'integratore NAD.
Il trattamento a lungo termine con UA ha migliorato significativamente l'apprendimento, la memoria e la funzione olfattiva in diversi topi transgenici AD. L'UA ha inoltre ridotto le patologie da amiloide beta (Aβ) e tau e ha rafforzato il potenziamento a lungo termine. L'UA ha indotto la mitofagia attraverso l'aumento delle funzioni lisosomiali. L'UA ha migliorato la funzione lisosomiale cellulare e ha normalizzato le catepsine lisosomiali, soprattutto la catepsina Z, per ripristinare la funzione lisosomiale nell'AD, indicando il ruolo critico delle catepsine negli effetti terapeutici indotti dall'UA sull'AD.
Il vantaggio di lavorare con una sostanza naturale consiste nella riduzione del rischio di effetti collaterali. Diversi studi hanno finora dimostrato che l'integrazione con il NAD non ha effetti collaterali gravi. Le conoscenze sull'UA sono più limitate, ma gli studi clinici condotti con questa sostanza si sono rivelati efficaci nella malattia muscolare.
Nel complesso, lo studio evidenzia l'importanza della disfunzione lisosomiale nell'eziologia dell'AD e sottolinea l'elevato potenziale traslazionale dell'UA.
Foto di Arjun Kapoor su Unsplash

Uno studio clinico condotto presso la Oregon Health & Science University suggerisce che un sottogruppo di adulti anziani con una predisposizione genetica alla malattia di Alzheimer può trarre beneficio dagli integratori di olio di pesce.
Lo studio è stato recentemente pubblicato su JAMA Network Open.
Gli anziani che presentano una minore assunzione e livelli tissutali più bassi di acidi grassi polinsaturi (PUFA) a catena lunga omega-3, presentano un maggior numero di lesioni della sostanza bianca cerebrale (WML), un'associazione che suggerisce che la malattia ischemica dei piccoli vasi, uno dei principali fattori che contribuiscono allo sviluppo della demenza, compreso il morbo di Alzheimer, potrebbe essere prevenuta attraverso il trattamento con omega-3.
L'obiettivo dello studio era determinare se il trattamento con omega-3 riducesse l'accumulo di WML in adulti anziani senza demenza che presentavano già WML e con uno stato di omega-3 subottimale.
Si tratta di un trial clinico di 3 anni randomizzato, in quadruplo cieco, controllato con placebo, con stratificazione del trattamento in base allo stato di portatore dell'allele ε4 dell'apolipoproteina E (APOE*E4). I partecipanti erano 102 adulti senza demenza di età pari o superiore a 75 anni con WML maggiore o uguale a 5 cm3 e omega-3 PUFA plasmatici inferiori a 5,5 percentuali di peso sul totale.
Il trattamento triennale consisteva in 1,65 g di omega-3 PUFA (975 mg di EPA e 650 mg di DHA) contro un placebo di olio di soia uguale per gusto, odore e aspetto.
L' outcome primario era la progressione annuale della WML misurata con la risonanza magnetica. Gli outcome secondari includevano l'imaging del tensore di diffusione dell'anisotropia frazionale (DTI-FA), che rappresenta la disgregazione dell'integrità neuronale, per valutare l'entità del cambiamento delle lesioni della sostanza bianca. Queste lesioni possono inibire l'apporto di sostanze nutritive al cervello attraverso i vasi sanguigni, aumentando il rischio di sviluppare la demenza più avanti nella vita.
Lo studio non ha rilevato benefici statisticamente significativi per gli anziani in generale. Tuttavia, tra i soggetti arruolati nello studio che erano anche portatori di APOE*E4, un gene associato alla malattia di Alzheimer, è stata riscontrata una riduzione della rottura dell'integrità neuronale delle cellule nervose nel cervello, suggerendo che questo trattamento potrebbe essere utile per questo gruppo specifico.
Foto di Natallia Photo su Unsplash

Ci sono sempre più prove che dimostrano il ruolo del microbioma intestinale nella regolazione del comportamento socio-affettivo negli animali e nelle condizioni cliniche. Tuttavia, se e come la composizione del microbioma intestinale possa influenzare il processo decisionale sociale in condizioni di salute rimane tuttora sconosciuto.
Per comprendere meglio il ruolo modulatore che il microbioma intestinale può svolgere nella cognizione e nel comportamento sociale, uno studio pubblicato sulla rivista PNAS Nexus ha esaminato se l'assunzione di pro- e pre-biotici possa influenzare i livelli di punizione altruistica.
Per sette settimane, 51 partecipanti hanno assunto integratori simbiotici contenenti i batteri benefici Lactobacillus e Bifidobacterium. Altri 50 partecipanti fungevano da controllo e assumevano dei placebo.
Prima e dopo le sette settimane di assunzione dell'integratore alimentare, ai partecipanti è stato chiesto di giocare al gioco dell'ultimatum, un compito di economia comportamentale storicamente utilizzato per valutare la contrattazione e il comportamento altruistico.
Nel gioco, un giocatore controlla un monte di denaro e può offrire una parte a un secondo giocatore. Il secondo giocatore può accettare l'offerta e prendere il denaro oppure può rifiutarla, nel qual caso nessuno dei due riceve denaro. Il rifiuto di un'offerta ingiusta viene interpretato come una punizione altruistica, in quanto chi rifiuta sacrifica la piccola quota offerta per punire il primo giocatore per essere stato poco generoso.
I giocatori che hanno assunto gli integratori alimentari erano più propensi a rifiutare le offerte. In particolare, i giocatori che hanno assunto gli integratori erano più propensi a rifiutare le suddivisioni del 30%-40%; tutti i giocatori tendevano a rifiutare le suddivisioni molto disuguali.
I giocatori che all'inizio dello studio presentavano un elevato rapporto tra Firmicutes e Bacteroidetes hanno registrato i maggiori cambiamenti sia nella composizione dell'intestino che nei tassi di punizione altruistica. I risultati hanno mostrato che gli integratori aumentavano la disponibilità dei partecipanti a rinunciare a un compenso monetario in caso di trattamento ingiusto. Questo cambiamento nel processo decisionale sociale era correlato a variazioni dei livelli sierici a digiuno del precursore della dopamina, la tirosina, proponendo un potenziale collegamento meccanicistico lungo l'asse intestino-microbiota-cervello-comportamento. Questi risultati migliorano la nostra comprensione del ruolo bidirezionale delle interazioni corpo-cervello nel processo decisionale sociale e del perché gli esseri umani a volte agiscono in modo “irrazionale” secondo la teoria economica standard.
Lo studio ha dimostrato che un intervento dietetico è in grado di modificare la composizione del microbioma intestinale, che a sua volta può cambiare le decisioni delle persone in un classico dilemma sociale: l'equità diventa più importante quando si è deciso di accettare o rifiutare diverse contropartite monetarie. I risultati forniscono prove causali degli effetti della composizione del microbioma intestinale sul processo decisionale sociale e indicano un ruolo della tirosina, precursore della dopamina. Forniscono nuove conoscenze sul ruolo dell'asse microbioma-intestino-cervello per il comportamento sociale e sottolineano l'importanza di una dieta equilibrata con potenziali implicazioni per l'istruzione e la politica.
Lo studio ha utilizzato solo partecipanti di sesso maschile con un indice di massa corporea (IMC) compreso tra 20 e 34 e che non seguivano una dieta speciale, come quella vegana, priva di glutine o legata alle allergie, poiché uno stile di vita di questo tipo avrebbe limitato la generalizzabilità dei risultati. Ulteriori studi potrebbero verificare gli effetti su campioni più eterogenei e su diete diverse.
Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay

La vitamina B6 è un nutriente importante per una funzione cerebrale ottimale, la sua carenza è collegata a una compromissione della memoria, dell'apprendimento e dell'umore in vari disturbi mentali. Nelle persone anziane, la carenza di vitamina B6 è anche associata al declino della memoria e alla demenza. Sebbene questo sia noto da anni, il ruolo preciso della vitamina B6 in questi disturbi e la possibilità di utilizzare integratori per trattarli o prevenirli sono ancora poco chiari.
Il motivo è in parte dovuto al fatto che la vitamina B6 è in realtà un termine generico per un piccolo numero di molecole molto simili e intercambiabili. Solo una di queste è “bioattiva”, cioè ha un ruolo biologico nelle cellule. Tuttavia, mancano strategie terapeutiche mirate ad aumentare solo la forma bioattiva della vitamina B6.
Uno studio eseguito in precedenza ha dimostrato che l’alterazione del gene di un enzima chiamato piridossal fosfatasi, che scompone la vitamina B6, migliora la memoria e l'apprendimento nei topi. Per verificare se questi effetti potessero essere riprodotti da sostanze simili ai farmaci, Brenner, Zink, Witzinger et al. hanno utilizzato diversi approcci biochimici e di biologia strutturale per cercare molecole che si leghino alla piridossal fosfatasi e la inibiscano.
I nuovi esperimenti, pubblicati recentemente su Elife hanno dimostrato che una molecola chiamata 7,8-diidrossiflavone - che in precedenza si era rivelata in grado di migliorare la memoria e l'apprendimento in animali da laboratorio con disturbi cerebrali - si lega alla piridossal fosfatasi e ne inibisce l'attività. Il risultato è stato un aumento dei livelli di vitamina B6 bioattiva nelle cellule cerebrali di topo coinvolte nella memoria e nell'apprendimento.
I risultati del gruppo dell’Università di Würzburg suggeriscono che l'inibizione della piridossal fosfatasi per aumentare i livelli di vitamina B6 nel cervello potrebbe essere utilizzata insieme agli integratori. L'identificazione del 7,8-diidrossiflavone come promettente farmaco candidato è un primo passo verso la scoperta di inibitori della piridossal fosfatasi più efficaci. Questi costituiranno utili strumenti sperimentali per studiare direttamente se l'aumento dei livelli di vitamina B6 bioattiva nel cervello possa aiutare le persone affette da condizioni di salute mentale associate a disturbi della memoria, dell'apprendimento e dell'umore.
Foto di Total Shape da Pixabay

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