Giulio Fezzardini

Mktg & sales

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Italia

 O’ cafè: sulo a Napule 'o sanno fa' 

La mattina di un torrido giorno d’estate di alcuni anni fa sono sbarcato all’aeroporto di Capodichino a Napoli con trolley e chitarra sotto lo sguardo incuriosito di alcuni viaggiatori nel vedermi accolto con entusiasmo da un folto gruppo di persone festanti. Credo mi abbiano preso per un cantante neomelodico.

Non era così: ero stato invitato al 50° di matrimonio di una coppia di carissimi amici napoletani e la chitarra sarebbe servita, come è stato, ad accompagnare una memorabile due giorni di festeggiamenti.

Era la mia prima volta a Napoli e ho colto l’occasione per risolvere un mio quesito esistenziale bene espresso da due giganti della canzone italiana.


Fabrizio De André:


Ah, che bello 'o cafè
Pure in carcere 'o sanno fá
Co 'a ricetta che a Cicirinella
Cumpagno di cella, c'ha dato mammà

(Don Raffaé)


che riprende un altro grande collega, Domenico Modugno:


Ah, che bellu cafè,
sulo a Napule 'o sanno fa'
e nisciuno se spiega pecché
è 'na vera specialità!

(O’ ccafè)


La domanda era: ma il “vero” caffè napoletano è mito o realtà?

Lo avrei scoperto in breve.



Il napoletano, si sa è per definizione accoglienza e premura. In “Così parlò Bellavista”, Luciano de Crescenzo afferma che un poveretto che avesse un malore per strada a Napoli rischia sì di morire, ma soffocato dalle attenzioni dei passanti.

Non sorprende quindi che i miei amici, immaginandomi provato dal volo Milano-Napoli, mi trascinassero ad Aversa a mangiare Polacche Aversane (specialità dolciaria a metà strada tra la brioche e il paradiso), con (finalmente), caffè napoletano.


Ho avuto così la mia risposta.

Non è che il caffè sia migliore o peggiore di altri: “semplicemente” è un altro mondo. Il perché non lo ha appurato neppure Alberto Angela in uno straordinario reportage dedicato a Napoli. E’ l’acqua? La miscela del caffè? L’aria? L’abilità e il “core” del barista (autorità indiscussa del bar napoletano)?

Non si sa. Fatto sta che il caffè partenopeo è iconico.

Se Watson e Crick per i loro studi avessero studiato DNA di napoletani veraci, molto probabilmente avrebbero trovato un cromosoma alla caffeina.

A Napoli puoi essere la persona più disgraziata del mondo. Ma c’è un momento di benessere che non ti sarà mai negato ed è una tazzina di caffè. E’ solo a Napoli che troviamo l’istituzione del “caffè sospeso” prepagato per chi è in difficoltà.


Questa premessa per completare, come annunciato nel precedente Coffee Break, dedicato alla Moka Bialetti, la nostra fotografia sulle macchine da caffè domestiche con l’altrettanto famosa “napoletana”.

La napoletana, credo tutti l’abbiamo presente, è molto diversa dalla Moka.

Cominciamo col dire che la “cuccumella”, questo l’affettuoso appellativo dialettale, nasce in realtà in Francia grazie al genio dello stagnino Jean-Louise Morize che nel 1819 realizzò una caffettiera a doppio filtro in rame cui si è ispirata la cuccumella partenopea, anche lei in rame quindi, più comunemente, in alluminio.

Rispetto alla “rivale” del Nord che opera per pressione dell’acqua, la napoletana agisce per gravità.

Grosso modo i componenti della macchina sono gli stessi: serbatoio dell'acqua, manico, buchetto a lato, contenitore nel quale mettere la polvere di caffè torrefatto, beccuccio più pronunciato.

La grande diversità rispetto alla Moka è rappresentata dalla operatività: il serbatoio con l’acqua nella fase iniziale dell’operazione è girato in basso sul fornello. Alla bollitura viene quindi rovesciato e si attiva la “percolazione” (lento passaggio di fluidi attraverso materiale poroso da non confondere col percolato cittadino!) dell’acqua che emigra nel caffè e dà vita alla magica infusione.

Un elemento in più lo rivela Eduardo De Filippo in una celebre clip di “Questi Fantasmi”, quando, in dialogo sul balcone col dirimpettaio, spiega che sul beccuccio ci mette un cappellotto di carta a contenere l’aroma all’interno della macchinetta.

Ergo: l’aromaterapia è una invenzione napoletana.


Tutto ciò (macchina, componenti, preparazione, cura, servizio, torrefazione) trova nel caffè napoletano una sintesi col termine “rito”. Perché è evidente che altro è mettere una cialda frettolosa in un apparecchio elettrico; altro è prendersi del tempo, affidarsi a gesti antichi, coccolare l’ebollizione, servire la bevanda nella tazzina rigorosamente calda. E possibilmente in compagnia: perché l’ultimo elemento della formulazione napoletana è la convivialità.


La solitudine da tazzina non è ammessa. Nel film, “Scusate il ritardo”, Massimo Troisi identifica il massimo della solitudine con la minuscola moka da una (!) tazzina di un amico misantropo!


Va detto che c’è sempre nel napoletano, complice una antica, travagliata, eredità della Storia (Eduardo è maestro nella sua narrazione), un misto di malinconia, euforia e fatalistico disincanto.


E’ forse questa miscela l’ingrediente segreto che rende il caffè napoletano unico e intenso come unica e intensa è la vita.

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