Editoriale

Silvana Maini

Direttore editoriale

TKS Publisher

Italia

Che cosa ha insegnato la pandemia, ancora in corso, al mondo produttivo? 

Un termine che abbiamo sentito risuonare più e più volte come un mantra ossessivo in questi due anni è quello di “resilienza”.  
Un termine talmente abusato che ultimamente quando espresso viene spesso accolto con una certa insofferenza. 


Se vogliamo è quello che è successo con “sostenibilità”: una specie di etichetta appiccicata sovente a contesti in cui non sarebbe necessario e opportuno farlo. 

Partiamo proprio da “sostenibilità”. 

Come in molti (specialmente se in età matura come la mia) ricordiamo, anni fa l’aggettivo “sostenibile” era quasi sinonimo di “naturale”, “biodegradabile”, “verde” tout court. 

Era anche giusto così, eravamo all’inizio di un cammino. Oggi sappiamo che un prodotto di sintesi può essere più sostenibile di un prodotto naturale e che un bicchier d’acqua preso dal rubinetto di casa può essere più sostenibile di una bottiglia d’acqua presa dal ghiacciaio che tuttavia mi è stata portata a casa con un vecchio automezzo diesel.  

“Sostenibilità”, senza avere la presunzione di dare la definizione ultima, è un sistema virtuoso composto da visione, comportamento, adozione di tecnologie a loro volta virtuose.  


Forse la stessa dinamica si può applicare al termine “resilienza” adottata oggi in tempo di crisi. 

Con la differenza che mentre il termine “sostenibilità” ha avuto il tempo di evolvere negli anni, la resilienza si è dovuta manifestare, esprimere, letteralmente nel giro di pochi giorni a fronte di un fenomeno aggressivo dalle caratteristiche belliche. 

Una pressione enorme dettata dalle circostanze ha fatto sì che nel giro di due anni il termine “resilienza” sia passato da “capacità di reagire positivamente ad una situazione avversa”, ad altro.  

Cosa sia questo “altro” ancora non lo possiamo dire veramente. Ma nel tentare una ipotesi, in un clima colloquiale tra colleghi, lo definirei “sistema”. 


In Italia siamo in clima di elezione presidenziale e quando questo editoriale sarà pubblicato sapremo già chi ci guiderà nel prossimo settennato.  
Ebbene nel 1984 l’allora Presidente della Repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi, al ritorno, guarda caso, da una visita in Cina, commentando i ragguardevoli risultati italiani raggiunti in quel Paese, affermò che quando l’Italia “fa” sistema e le parti lavorano insieme, diventa vincente.  


E’ una realtà che va oltre ogni retorica e che nella vicenda pandemica ha manifestato una volta ancora la sua verità. 

Le aziende in ogni settore (non è opportuno parlare del cuore ospedaliero fortemente ferito dal dramma che l’ha travolto che ha comunque affrontato con eroismo), hanno saputo reagire con forza prima alzando gli argini all’interno delle proprie mura, poi andando oltre quelle mura stabilendo nuovi criteri e modalità operative.  

 
Ma, questo è il punto importante, lo hanno fatto costruendo “ponti” in uno spirito di “sistema” che ha visto coinvolte innumerevoli risorse umane e tecnologiche, interconnessioni informatiche, logistiche, di servizio che, insieme, hanno dato vita ad un nuovo sistema di lavoro (ancora sistema) che sta impattando oggi in ogni aspetto della nostra vita produttiva e quindi occupazionale. 


Non tutto è positivo ovviamente. Parlando di clima bellico parliamo purtroppo anche di tanti errori, distruzioni, rovine da ricostruire. Ma di ricostruzione parliamo: ricostruzione fatta sistema, quindi in concerto con tutte la parti e risorse, che si tradurrà in volano di ripresa e sviluppo. Sicuramente il comparto chimico, chimico farmaceutico, l’ambito alimentare, nel nostro caso nutrizionale, sono stati e sono tutt’ora soldati in prima linea.  

 
Non c’è dubbio che la tecnologia applicata alla ricerca (quindi sperimentazione, analisi, produzione), lo sviluppo dell’elettronica, dell’informatica, l’intelligenza artificiale stiano permettendo una risposta globale impensabile nei fatti solo fino a pochi anni fa. 


Resta tuttavia il fatto che la grande risorsa resta sempre quell’“human touch” che si esprime nella capacità di diventare ed essere team, di avere team leaders motivati e motivanti, capacità di stabilire rapporti, contatti, partnership, alleanze, capacità di andare oltre i propri punti di vista in un’ottica di bene comune.  
Un’attitudine, va detto senza polemica e spirito qualunquista, di cui non sempre la politica (mondiale, non solo nostra), ha dato uno spettacolo edificante.  

Resta il fatto che sono e saranno sempre le donne e gli uomini di buona volontà che saranno in grado di farci passare dalla resistenza, alla resilienza e, finalmente, alla rinascita.  

Resistenza o resilienza?
Riflessione a due anni da quell’inizio